JOHN FAHEY America
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JOHN FAHEY America
http://www.ondarock.it/pietremiliari/fahey_america.htm
JOHN FAHEY
America
(Takoma) 1971
folk-rock
di Francesco Nunziata
C'è una foto di John Fahey che lo ritrae alla guida di un auto, lo sguardo assorto, nascosto da un paio di occhiali neri nei quali si specchia parte della strada; sul sedile posteriore, un cumulo di roba ammassata alla rinfusa; sopra quel cumulo, la sua chitarra. Dai finestrini, una luce abbagliante, che "oscura" totalmente il paesaggio. Ecco, questo è ciò che John riusciva a fare con la sua chitarra, con la sua "American primitive guitar": "oscurare" il paesaggio, tutti i paesaggi della sua America, per conferire loro una luce nuova, la luce del simbolo che penetra il reale e lo condensa in un vortice di alchimie indecifrabili. Alchimie che è possibile solo intuire, immergendosi in uno spazio-tempo che, più che definire il reale, lo popola di visioni ancestrali, mondi paralleli in cui trovano esilio il rincorrersi delle stagioni, il sibilare straziante dei venti, la magia "pittorica" dei temporali estivi e di qualunque altra cosa sia capace di far inciampare, per un attimo, il viaggio indomabile del cuore.
Il "fingerpicking" di Fahey trasuda simmetrie e contraddizioni, paure e speranze, malattia e salute, fedeltà alla terra e ai suoi splendori sepolti. Il "fingerpicking" di Fahey si avventura in territori inesplorati, disegna traiettorie immaginifiche, seleziona silenzi e rumori, ne trae emozioni, estasi, raccoglimento interiore, sensualità pagana. Il suo punto di vista è quello di una collina inaccessibile: ai suoi piedi, gli umani e la terra, sotto lo sguardo vigile degli dei.
Il tema di "Jesus Is A Dying Bedmaker" è attraversato da tenui spiragli di luce, che solo per un attimo danno l'impressione che la malinconia sia andata via, seguendo la sua strada nel buio. "Amazing Grace" è una scintilla reiterata di suoni, un bozzetto solenne, l'annuncio di irraggiungibili terre promesse, le cui lodi tessono la spensieratezza "country" di "Song # 3" e la tranquillità sincera e insondabile di "Special Rider Blues". Ninnananna per fiori accarezzati dalla brezza estiva: questo è "Dvorak". Così come "Finale" è un filo sottile che unisce lo spirito alle presenze della notte, quando gli uccelli riposano tra le foglie, invisibili.
In "America", Fahey distilla gocce di rugiada dalla 12 corde, prima di immergere le note nell'oceano e lasciarle annegare, lentamente. Un sacrificio dovuto, senza il quale sarebbe impossibile poter evocare la rinascita delle stesse in un prodigioso frangersi e sminuirsi, continuo e ineffabile: come un'unica grande danza di gioia che scivola via tra lussurie e capricci, verso la notte nera e misteriosa. Forse, la stessa notte che avvolgeva Dalhart nel Texas in quei giorni lontani del 1967 ("Dalhart, Texas, 1967") o quella che simulava fantasmi con le lucciole in quel di Knoxville ("Knoxville Blues"). Di certo, quella che, informe e disseminata, declinava un linguaggio antico, fatto di parole spigolose, pericolose; parole che più che "dire" le cose le lasciano "apparire", ma in una luce nuova, che, per l'appunto, oscura il paesaggio, tutti i paesaggi. ("Mark 1:15" ; "The Waltz That Carried Us Away…"). L'abisso si è spalancato, tanto che non ci sono più mezze misure o menzogne: la terra è libera nella sua nudità virginea. Nuda come il cuore di Fahey nella sua definitiva "visione": "Voice Of The Turtle", quindici minuti e passa di apoteosi lirico-narrativa, capace di spingersi verso le stelle e, in un attimo, di accarezzarne l'oblio. A 6' e 22" la chitarra stride, urla, addita la dissoluzione e l'estasi. Poi, riprende il suo flusso ininterrotto. Gli accordi si caricano sempre più di sogni; di vallate che sconfinano nell'impossibilità di ridirne l'equilibrio, il senso e la bellezza; di uomini in cammino verso altri cammini; di lunghe, interminabili carovane; di ruscelli, di farfalle, di cicale, di steli d'erba, fino al senso della terra, fino alla sua verità più alta.
Quella di Fahey è una celebrazione dell'immaginazione collettiva, fatta di tentativi sempre più "sublimi" di raccontare l'ignoto in cui tutto sembra confluire, come un fiume in piena che scivola inesorabile verso l'immensità luccicante degli oceani. E, tra questi, le note diventano lamelle fluorescenti, diamanti purissimi che possono solo riflettere, senza macchiarsene, la luce accecante di un linguaggio più profondo, tanto vicino alle cose da risultare, purtroppo, sconosciuto e pressoché inconoscibile. Ma non per questo incapace di irrompere nella quotidianità grazie alla gioia della creazione, la stessa che pervade "America", da cima a fondo. Nella musica di Fahey, insomma, l'"alterità" e l'"apparenza" coincidono, mentre il "suono" viene trasfigurato, diventando pura trascendenza, linguaggio universale, poesia. Giusto un attimo prima che il caos ne faccia un inutile simbolo di rovina e di morte.
A John Fahey (1939-2001 )
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