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Beastie Boys - Paul's Boutique

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Messaggio Da Artinside Mer 17 Nov 2010 - 0:10

http://www.ondarock.it/popmuzik/beastieboys.htm
Beastie Boys - Paul's Boutique Boutiq10

La scienza dei suoni: Paul’s Boutique

Grandi mutamenti, dicevamo. Il Muro di Berlino comincia a scricchiolare prima di cedere di schianto, salutato dalle note dei Pink Floyd. A Praga con la “rivoluzione di velluto” si avvera, vent’anni e troppe anime morte dopo, il sogno di un ragazzino di nome Jan Palach. A Tienanmen, per un attimo, anche il monolite giallo vacilla di fronte alla determinazione di altri ragazzi che, come hippie “regolari” in giacca e camicia, sfidano a mani nude i carri armati. Mentre in Sudafrica, almeno a giudicare dalle aperture del nuovo presidente De Klerk, l’”arida stagione bianca” sembra ormai agli sgoccioli. È il 1989.

Pure i Beastie, nel loro piccolissimo, si accingono a rivoluzionare il loro sound. E il microcosmo dell’hip-hop, più in generale. Una formula copernicana che, proprio partire dal 1989 e da dischi come “3 Feet High And Rising” dei De La Soul, “Done By The Force Of Nature” dei Jungle Brothers oltre che naturalmente dal nostro Paul’s Boutique, verrà denominata hip-hop progressive o alternative. A designarne la natura più ricercata, libertaria, anticonformista, sia dal punto di vista della musica che dei testi. Ovviamente quando i nostri mettono piede per la prima volta a Los Angeles hanno solo una vaghissima idea di tutto questo. Hanno con sé una montagna di dischi che vorrebbero campionare, una marea di spunti e di rime caotiche e la ferrea determinazione di fare un disco completamente diverso da Licensed To Ill. Ad aiutarli in questa impresa è un amico di Yauch (Mca), Matt Dike, che introduce il trio a un duo molto in vista sulla costa occidentale alla fine degli anni 80: E.Z. Mike e King Gizmo, aka The Dust Brothers. I due hanno cominciato più o meno negli stessi anni dei Beastie, prima come dj radiofonici, poi animando i rap-party più memorabili sulla mappa losangelina, infine diventando beatmaker e produttori con la loro Delicious Vinyl Label. Negli anni 90 troveranno la fama mondiale producendo “Odelay” di Beck e poi dedicandosi alla musica per il cinema (epocale la colonna sonora griffata per “Fight Club” di David Fincher), ma nel 1989 vivono già una sorta di stato di grazia, dando alle stampe altri due album di enorme successo come “Lòc-ed After Dark” di Tone Lòc e “Stone Cold Rhymin’” di Young Mc.
Paul’s Boutique, però, è un’altra cosa.

Ascoltando le basi che i Dust Brothers stanno preparando per un loro progetto essenzialmente strumentale i Beastie, come Alice, attraversano lo specchio e dall’altro lato trovano un paesaggio sonico surreale, iper-sincretico, praticamente inesplorato in ottica hip-hop. E vogliono entrarci dentro con tutte le loro forze. Coadiuvati da una nuova squadra di collaboratori che si allarga fino a diventare un vero e proprio ensemble (Dj Hurricane al turntable, Matt Dike e Mike Simpson come arrangiatori, Mario Caldato Jr. come co-produttore) i Boys e i Brothers danno vita a un affresco sonoro fra i più arditi e caleidoscopici della loro epoca. Utilizzando un numero inverosimile di sample (da tre a dieci per ogni canzone), raccordi ambientali, lunghe code e passaggi strumentali, i Nostri scardinano il concetto tradizionale di disco rap come semplice contenitore di canzoni, per plasmarlo in una sorta di streaming onirico, di fiume di citazioni, di mosaico di stili organizzato in modo perfettamente coerente. Il rap-rock succinto e “strappato” del disco d’esodio viene messo definitivamente in naftalina per far posto a un sontuoso abito multistrato dalle infinite cuciture, a un citazionismo zen e cinematico antenato del Tarantino di "Kill Bill" o “Grindhouse”, a fragranti reliquie che omaggiano la musica degli anni 60 e 70. Non solo funk e black, pure basali, nella texture armonica di “Paul’s Boutique” ma un hellzapoppin’ in cui si compenetrano dub, musica jamaicana, pop psichedelico, rock della west-coast, persino country e folk. Così accanto a Curtis Mayfield, George Clinton, Sly & The Family Stone, Isaac Hayes e James Brown volteggiano Beatles (sprazzi di ben cinque loro canzoni incastonate nel bel mezzo di quella gemma che è “The Sounds Of Science”), Pink Floyd, Jimi Hendrix, Black Oak Arkansas, Eagles, Bob Marley e perfino Johnny Cash (antologico il suo campione che a Mike D che dice “I shot a man in Brooklyn…” risponde “…just to watch him die”). Con questo disco il sampling viene elevato a cut-up surrealista e trasversale, a call and response gravido di rimandi espressivi e testuali, a vero e proprio wall of sound. Tanto da spingere molti critici a definire Paul’s Boutique come il “Sgt. Pepper” o il “Freak Out” dell’hip-hop.

Non esattamente il tipo di lavoro che ci si sarebbe aspettati dai punkster “casinari”, wanna be Sex Pistols, di Licensed To Ill. Che pure non lesinano i singoli ad effetto, come la monumentale “Hey Ladies”, una “Time To Get Ill” all’ennesima potenza, il dancefloor abrasivo di “Shake Your Rump” con una vera e propria eruzione di bassi lavici nel ritornello, il funk battagliero e sincopato di “Shadrach” (con quel vocalizzo femminile a loop nel ritornello che entrerà nel mito), il passo rockabilly di “Johnny Ryall” e quello hardrock di “Looking Down The Barrel Of A Gun” (splendido l’innesto del riff elefantiaco di un classico minore come “Mississipi Queen” dei Mountains). E nel contempo si muovono in mille direzione diverse, senza perdere in fluidità e coesione: il funky-dub dell’intro “To All The Girls”, la blaxploitation cineparodistica di “Egg Man”, la magnifica psichedelia californiana di “High Plains Drifter” (che mescola senza pudore Eagles e Ramones). E, infine, se proprio fossimo costretti a scegliere una sola parte per il tutto: la zappiana/beatlesiana “The Sounds Of Science” (uno dei brani più geniali della storia dell’hip-hop, probabilmente) e la suite conclusiva “B-Boy Bouillabasse”, dodici minuti in cui, tra fughe, stasi e ripartenze, trent’anni di stagioni musicali s’inseguono per almeno tre continenti.
Anche sul piano vocale e testuale siamo, rispetto al passato recente, su tutt’altro pianeta. Il rapping polifonico e ficcante del gruppo si complica nelle metriche, si fa acrobatico e spiazzante nell’esecuzione, mentre i testi amplificano e affinano l’impressionismo demenziale degli esordi. Così l’omaggio iniziale all’altra metà del cielo di “To All The Girls” sembra voler idealmente rispondere alle ingenerose accuse di maschilismo rivolte ad alcuni brani del passato (“Girls” soprattutto), in “Johnny Ryall” delineano con gusto e umorismo la vignetta di un barbone ex-stella del rockabilly, in “Egg Man” danno vita a un delizioso pastiche comico-surrealista, in “Looking Down The Barrel Of A Gun”, ironizzano in modo feroce sugli eccessi del passato e sulle insorgenti pose gangsta.

L’uscita di Paul’s Boutique susciterà in critica e pubblico reazioni diametralmente opposte rispetto a quelle dell’esordio. Se infatti la prima si rende quasi unanimemente conto del valore intrinseco e della portata innovativa dell’opera (“il Pet Sounds/The Dark Side Of The Moon dell’hip-hop” strillerà estatico persino il “conservatore” Rolling Stone), il secondo rimane inizialmente spiazzato, perdendo così per strada un’enorme fetta del suo seguito più rock oriented e tardo-adolescenziale, acquistando però, anno dopo anno, una solida fisionomia di culto. I riscontri immediati sono tuttavia piuttosto deludenti se paragonati a quelli del predecessore e risulteranno, paradossalmente, fra i meno remunerativi nella carriera del trio newyorkese: un numero 14 di massimale a Billboard e un 36 per il singolo più in vista, “Hey Ladies”. Le vendite, in ogni caso, cresceranno col tempo, fino a toccare i due milioni di copie a dieci anni circa dalla sua uscita, al pari della considerazione del disco. Considerazione che è già enorme fra gli addetti ai lavori se è vero che, sfogliando le cronache dell’epoca, ad applaudire convinto l’opus numero due dei Beastie troviamo addirittura un “pivellino” di nome Miles Davis e che Chuck D dei Public Enemy qualche anno dopo confesserà in un’intervista ciò che tutta la comunità rap di colore pensava, in quel lontano 1989, ma non aveva il coraggio di ammettere: l’essenza che i Beastie Boys (e i Dust Brothers) avevano distillato nei loro beat era di gran lunga il miglior suono hip-hop mai sentito fino a quel momento. (Simone Coacci da ondarock)



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