Mariposa - La musica componibile
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Mariposa - La musica componibile
http://www.ondarock.it/italia/mariposa.htm
Mariposa
La musica componibile
di Claudio Fabretti
Mariposa, ovvero "farfalla" in spagnolo, è il progetto di un sestetto "aperto" che opera tra Bologna, Verona e Arezzo. Un progetto ambizioso, che combina canzone d'autore italiana, folk, rock e psichedelia, in un'ambientazione surreale dalle tipiche tinte teatrali. Enzo Cimino (batteria e percussioni), Alessandro Fiori (voce e violino), Enrico Gabrielli (fiati), Gianluca Giusti (pianoforte e tastiere), Rocco Marchi (chitarra, basso, moog) e Michele Orvieti (tastiere e pianoforte) danno vita a una sorta di bizzarro "grammelot" in cui si fondono fondono liricità e umorismo, rumorismo e straniamento. "Il nostro proposito - spiegano i Mariposa - è di combinare spazi e dimensioni propri di mondi apparentemente lontani, quali la musica da camera e l'elettroacustica tipica del rock".
Il loro album d'esordio Portobello Illusioni (titolo scelto in omaggio a Rino Gaetano e alla sua "Nuntereggae più") si situa in quel sentiero d'avanguardia teatral-musicale già intrapreso da nomi di punta del rock d'autore italiano, come Avion Travel e Vinicio Capossela. E' soprattutto Capossela il riferimento più evidente, con il suo circismo fragoroso e le sue ballate surreali. In più, i Mariposa aggiungono un tocco di rumorismo e di psichedelia, attingendo alle partiture più sghembe di Tom Waits e ai "trip" lisergici di Syd Barrett.
Violini, flauti, sax, chitarre e piano si inseguono, partorendo atmosfere acustiche che si alternano ad improvvisi sprazzi noise, a schizzi di jazz, contaminazioni klezmer e filastrocche sonore. E' un mix di arpeggi sopraffini ("Nenia diffusa") e marcette alticce (la travolgente "Giostra d'urto"), languide melodie alla Tenco ("Asparagi") e strampalate sonate per piano ("Enrico IV"), struggenti ballate ("Vorrei andare da sola", "La sala da ballo", ) e filastrocche grottesche ("Tutto in 40 minuti", "Poesia del lettone"). I testi sono sempre arguti e affilati, nel segno di quell'ironia disincantata cara al loro "maestro" Rino Gaetano.
Il disco però ha due difetti di fondo: l'eccessiva autoindulgenza, che porta ad esempio i Mariposa a incidere quaranta secondi di vomitata nella (discutibile) convinzione che la cosa possa interessare a qualcuno, e la prolissità di fondo: troppi sedici brani per l'attuale bagaglio di idee della band. Ma è comunque un esordio coraggioso per una formazione che denota già una vivida "follia" musicale.
Il successivo album in studio, Domino Dorelli (2002), accentua ulteriormente questo gusto per il surreale, dando vita a una vera e propria messinscena teatrale di ispirazione zappiana, sublimata dai testi nonsense di Alessandro Fiori. Anche lo spettro sonoro si fa più ampio, col ricorso ad archi e fiati e persino a un coro di voci bianche. E' un "domino", un gioco a incastro, appunto, in cui anche l'ascoltatore viene chiamato a partecipare fattivamente. Non è un concept-album, anche se per certi versi gli può assomigliare. Il tema del secondo brano, "Pinoleum Christi", diventa il motivo conduttore della lavorazione: la fine del mondo e il giudizio universale. Ovviamente à-la Mariposa, quindi con tutto ciò di felliniano, epico e stralunato ci può essere nel trattare temi altrove raccontati con ben altra gravità.
Tra incursioni in territorio psichedelico ("Vamps di rumore"), marce stralunate ("La Trota Neon"), pantomime alla Capossela ("Undici La") e ballate più classiche ("La linea e il Cynar"), i Mariposa mettono in mostra un repertorio musicale ormai ricco e poliedrico, sempre pervaso da quell'urgenza creativa che ne aveva ispirato l'esordio. Non sempre, tuttavia, tanto fervore si traduce in canzoni pienamente a fuoco, e questo resta, in definitiva, il vero tallone d'Achille della band.
Nel frattempo, i Nostri si assestano in un settimino multietnico, con elementi provenienti dal Veneto, dall'Emilia, dalla Toscana e dalla Sicilia: Bologna è il loro punto d’incontro, sede del quartier generale della loro etichetta Trovarobato.
Pròffiti Now! (2005) è probabilmente il lavoro più organico e maturo dei Mariposa. Il nuovo tema centrale è la riesumazione del documentario, attraverso spezzoni di interviste ai protagonisti dell'indie-rock italiano e forti dosi di satira politica e sociale. Musicalmente, si spazia dal free-jazz al pop, passando per quella canzone d'autore che resta l'architrave della loro opera. Dai deliri ossessivi di "Teen Vaginas Can Destroy Your Life" e "Rimpianti a gas" alla solenne "Tutta Roba Marca" (vicina al Lucio Dalla più sperimentale), dai languori psichedelici di "Radio Marea" allo spietato teatrino politico di "Forza Musica", si consuma un rituale beffardo e amaro al contempo.
Smontare, rimontare, tagliare e cucire, spostare, combinare: questa è la "musica componibile" che i Mariposa si sono prefissi di diffondere. E Pròffiti Now ne è forse il saggio definitivo.
Dopo due anni di silenzio discografico, i Mariposa tornano con Best Company, un album antologico contenente tutte le cover incise dalla band nei suoi nove anni di attività. Si passa dalla "Oily Way" degli amati Gong ai numi tutelari Jannacci e Gaber, dalle coraggiose trasfigurazioni de "L’apprendista" degli Stormy Six alla esplosiva versione di "Ob-la-di Ob-la-da" dei Beatles, fino alla "Male di Miele" degli Afterhours, affidata alla voce di una bambina di 8 anni.
Un rapporto di lunga data, quello fra i Mariposa e le cover, testimoniato anche da un loro disco del 2004, Nuotando in un pesce bowl, nel quale si sono divertiti a manipolare antiche melodie popolari napoletane in versione strumentale ed elettronica. Nel frullatore dei Mariposa gli originali appaiono stravolti, emergono significati sopiti, suggestioni appena accennate. In fondo, dovrebbe essere solo questo il senso di un album di cover.
Primo album di materiale inedito in quattro anni (quindi escludendo la raccolta di cover di Best Company, il side-project di Alessandro Fiori con gli Amore e l’integrale live del vaudeville dada di “Quanti sedani lasciati ai cani”), e cioè da quel Pròffiti Now! - doppio cd che a tutt’oggi è forse il loro capolavoro - l’omonimo Mariposa annuncia un discreto ritrattamento stilistico.
Rinunciando (del tutto o in parte) al loro mefitico non-sense, i pezzi riusciti preferiscono puntare alla spinta contagiosa post-punk (“Specchio”), al bubblegum eccentrico affogato in fanfare sardoniche (“Zia Vienna”), o alla sottospecie di valzer-carillon misto a liscio per farfisa (“Notel Hotel”). Qua e là si scorgono toni da Mark Everett stranito, come in “Piero”, o da Beck funky-soul in “Clinique Veterinaire”. Ma troppi episodi sono bonaccioni, se non proprio scadenti: la canzoncina di “Zucca”, l’ormai tipica jam di “81 guerra atomica, 84 confronto: rivoluzione” (qui minore), e discrete esagerazioni orchestrali (“Sudoku” e “Vattene pur via”, al limite della ballad sentimentale). Ad attestare maggiore credibilità alla “riduzione” dei Mariposa” sono “Poco più in là”, dalla buona costruzione lounge, e l’inconcludente parodia drogata di Aerosmith e Ac/Dc di “Can I Have Bon Bon?”.
Lavoro non esattamente maiuscolo e un po’ banale, come se si trattasse di un progetto parallelo del loro stesso progetto parallelo (gli Amore). “Specchio” è la ragion d’essere della band nel 2009, ben più del cameo di Daevid Allen in “Clinique Veterinaire”.
Lo stato dell’arte lo raggiunge Enrico Gabrielli, ormai direttore artistico a pieno titolo (dopo l’onorevole presenza sul palco dell’Ariston nel Febbraio 2009, ad accompagnare gli Afterhours), polistrumentista e intellighenzia indiscutibile del (già) sottobosco italico.
Nel 2010 giunge anche l'esordio solista di Alessandro Fiori, frontman, cantante, e paroliere dei Mariposa e degli Amore, titolare di collaborazioni (tra cui quella monumentale con Lorenzo Bruschi per “Zarathustra”, su Timet), nonché pittore, narratore e inventore di un personale dada letterario. Attento a me stesso è una messa a nudo per l’autore; lontano dalle istanze sperimentali dei Mariposa e dai trip ritmici degli Amore, Fiore ha modo di librare il suo ego in vignette esistenzialiste a tutto tondo.
La prima parte è una delle sue più efficaci personificazioni di giullare Wyatt-iano, la più densa d’epitaffi musicali e icone letterarie, in particolare per la classicheggiante “Catino blu”.
Nella seconda parte si sdilinquisce dovizioso in vaudeville più elementari, con un nuovo apice, “2 Cowboy per un parcheggio”. L’ultima parte è quella più psichedelica, ma soprattutto casalinga, con il rarefatto tango-style di “Labbra fredde” sorretto mirabilmente dai comprimari e da sviolinate melanconiche.
Disco di giusto comodo, non è impeccabile nel far corrispondere l’ampio ventaglio di calligrafie ad altrettanti stati d’animo; nella disomogeneità del complessino da camera che lo accompagna ha quasi un disco nel disco: Fiori a piano e violino, “Asso” Stefana a chitarra e basso, Marco Parente alla batteria assieme a Zeno De Rossi, Enrico Gabrielli a fiati e vibrafono, Danilo Gallo al contrabbasso.
Semmai Semiplay, 2011, ribadisce la presenza del complesso sulle scene italiche e contiene ancora "Pterodattili" e almeno il reading-mantra svanito di "Eccetera eccetera", ma è una banalizzazione un po' imbroghesita del loro verbo, che cerca più che altro di venire incontro a un pubblico ormai ampio.
Mariposa
La musica componibile
di Claudio Fabretti
Mariposa, ovvero "farfalla" in spagnolo, è il progetto di un sestetto "aperto" che opera tra Bologna, Verona e Arezzo. Un progetto ambizioso, che combina canzone d'autore italiana, folk, rock e psichedelia, in un'ambientazione surreale dalle tipiche tinte teatrali. Enzo Cimino (batteria e percussioni), Alessandro Fiori (voce e violino), Enrico Gabrielli (fiati), Gianluca Giusti (pianoforte e tastiere), Rocco Marchi (chitarra, basso, moog) e Michele Orvieti (tastiere e pianoforte) danno vita a una sorta di bizzarro "grammelot" in cui si fondono fondono liricità e umorismo, rumorismo e straniamento. "Il nostro proposito - spiegano i Mariposa - è di combinare spazi e dimensioni propri di mondi apparentemente lontani, quali la musica da camera e l'elettroacustica tipica del rock".
Il loro album d'esordio Portobello Illusioni (titolo scelto in omaggio a Rino Gaetano e alla sua "Nuntereggae più") si situa in quel sentiero d'avanguardia teatral-musicale già intrapreso da nomi di punta del rock d'autore italiano, come Avion Travel e Vinicio Capossela. E' soprattutto Capossela il riferimento più evidente, con il suo circismo fragoroso e le sue ballate surreali. In più, i Mariposa aggiungono un tocco di rumorismo e di psichedelia, attingendo alle partiture più sghembe di Tom Waits e ai "trip" lisergici di Syd Barrett.
Violini, flauti, sax, chitarre e piano si inseguono, partorendo atmosfere acustiche che si alternano ad improvvisi sprazzi noise, a schizzi di jazz, contaminazioni klezmer e filastrocche sonore. E' un mix di arpeggi sopraffini ("Nenia diffusa") e marcette alticce (la travolgente "Giostra d'urto"), languide melodie alla Tenco ("Asparagi") e strampalate sonate per piano ("Enrico IV"), struggenti ballate ("Vorrei andare da sola", "La sala da ballo", ) e filastrocche grottesche ("Tutto in 40 minuti", "Poesia del lettone"). I testi sono sempre arguti e affilati, nel segno di quell'ironia disincantata cara al loro "maestro" Rino Gaetano.
Il disco però ha due difetti di fondo: l'eccessiva autoindulgenza, che porta ad esempio i Mariposa a incidere quaranta secondi di vomitata nella (discutibile) convinzione che la cosa possa interessare a qualcuno, e la prolissità di fondo: troppi sedici brani per l'attuale bagaglio di idee della band. Ma è comunque un esordio coraggioso per una formazione che denota già una vivida "follia" musicale.
Il successivo album in studio, Domino Dorelli (2002), accentua ulteriormente questo gusto per il surreale, dando vita a una vera e propria messinscena teatrale di ispirazione zappiana, sublimata dai testi nonsense di Alessandro Fiori. Anche lo spettro sonoro si fa più ampio, col ricorso ad archi e fiati e persino a un coro di voci bianche. E' un "domino", un gioco a incastro, appunto, in cui anche l'ascoltatore viene chiamato a partecipare fattivamente. Non è un concept-album, anche se per certi versi gli può assomigliare. Il tema del secondo brano, "Pinoleum Christi", diventa il motivo conduttore della lavorazione: la fine del mondo e il giudizio universale. Ovviamente à-la Mariposa, quindi con tutto ciò di felliniano, epico e stralunato ci può essere nel trattare temi altrove raccontati con ben altra gravità.
Tra incursioni in territorio psichedelico ("Vamps di rumore"), marce stralunate ("La Trota Neon"), pantomime alla Capossela ("Undici La") e ballate più classiche ("La linea e il Cynar"), i Mariposa mettono in mostra un repertorio musicale ormai ricco e poliedrico, sempre pervaso da quell'urgenza creativa che ne aveva ispirato l'esordio. Non sempre, tuttavia, tanto fervore si traduce in canzoni pienamente a fuoco, e questo resta, in definitiva, il vero tallone d'Achille della band.
Nel frattempo, i Nostri si assestano in un settimino multietnico, con elementi provenienti dal Veneto, dall'Emilia, dalla Toscana e dalla Sicilia: Bologna è il loro punto d’incontro, sede del quartier generale della loro etichetta Trovarobato.
Pròffiti Now! (2005) è probabilmente il lavoro più organico e maturo dei Mariposa. Il nuovo tema centrale è la riesumazione del documentario, attraverso spezzoni di interviste ai protagonisti dell'indie-rock italiano e forti dosi di satira politica e sociale. Musicalmente, si spazia dal free-jazz al pop, passando per quella canzone d'autore che resta l'architrave della loro opera. Dai deliri ossessivi di "Teen Vaginas Can Destroy Your Life" e "Rimpianti a gas" alla solenne "Tutta Roba Marca" (vicina al Lucio Dalla più sperimentale), dai languori psichedelici di "Radio Marea" allo spietato teatrino politico di "Forza Musica", si consuma un rituale beffardo e amaro al contempo.
Smontare, rimontare, tagliare e cucire, spostare, combinare: questa è la "musica componibile" che i Mariposa si sono prefissi di diffondere. E Pròffiti Now ne è forse il saggio definitivo.
Dopo due anni di silenzio discografico, i Mariposa tornano con Best Company, un album antologico contenente tutte le cover incise dalla band nei suoi nove anni di attività. Si passa dalla "Oily Way" degli amati Gong ai numi tutelari Jannacci e Gaber, dalle coraggiose trasfigurazioni de "L’apprendista" degli Stormy Six alla esplosiva versione di "Ob-la-di Ob-la-da" dei Beatles, fino alla "Male di Miele" degli Afterhours, affidata alla voce di una bambina di 8 anni.
Un rapporto di lunga data, quello fra i Mariposa e le cover, testimoniato anche da un loro disco del 2004, Nuotando in un pesce bowl, nel quale si sono divertiti a manipolare antiche melodie popolari napoletane in versione strumentale ed elettronica. Nel frullatore dei Mariposa gli originali appaiono stravolti, emergono significati sopiti, suggestioni appena accennate. In fondo, dovrebbe essere solo questo il senso di un album di cover.
Primo album di materiale inedito in quattro anni (quindi escludendo la raccolta di cover di Best Company, il side-project di Alessandro Fiori con gli Amore e l’integrale live del vaudeville dada di “Quanti sedani lasciati ai cani”), e cioè da quel Pròffiti Now! - doppio cd che a tutt’oggi è forse il loro capolavoro - l’omonimo Mariposa annuncia un discreto ritrattamento stilistico.
Rinunciando (del tutto o in parte) al loro mefitico non-sense, i pezzi riusciti preferiscono puntare alla spinta contagiosa post-punk (“Specchio”), al bubblegum eccentrico affogato in fanfare sardoniche (“Zia Vienna”), o alla sottospecie di valzer-carillon misto a liscio per farfisa (“Notel Hotel”). Qua e là si scorgono toni da Mark Everett stranito, come in “Piero”, o da Beck funky-soul in “Clinique Veterinaire”. Ma troppi episodi sono bonaccioni, se non proprio scadenti: la canzoncina di “Zucca”, l’ormai tipica jam di “81 guerra atomica, 84 confronto: rivoluzione” (qui minore), e discrete esagerazioni orchestrali (“Sudoku” e “Vattene pur via”, al limite della ballad sentimentale). Ad attestare maggiore credibilità alla “riduzione” dei Mariposa” sono “Poco più in là”, dalla buona costruzione lounge, e l’inconcludente parodia drogata di Aerosmith e Ac/Dc di “Can I Have Bon Bon?”.
Lavoro non esattamente maiuscolo e un po’ banale, come se si trattasse di un progetto parallelo del loro stesso progetto parallelo (gli Amore). “Specchio” è la ragion d’essere della band nel 2009, ben più del cameo di Daevid Allen in “Clinique Veterinaire”.
Lo stato dell’arte lo raggiunge Enrico Gabrielli, ormai direttore artistico a pieno titolo (dopo l’onorevole presenza sul palco dell’Ariston nel Febbraio 2009, ad accompagnare gli Afterhours), polistrumentista e intellighenzia indiscutibile del (già) sottobosco italico.
Nel 2010 giunge anche l'esordio solista di Alessandro Fiori, frontman, cantante, e paroliere dei Mariposa e degli Amore, titolare di collaborazioni (tra cui quella monumentale con Lorenzo Bruschi per “Zarathustra”, su Timet), nonché pittore, narratore e inventore di un personale dada letterario. Attento a me stesso è una messa a nudo per l’autore; lontano dalle istanze sperimentali dei Mariposa e dai trip ritmici degli Amore, Fiore ha modo di librare il suo ego in vignette esistenzialiste a tutto tondo.
La prima parte è una delle sue più efficaci personificazioni di giullare Wyatt-iano, la più densa d’epitaffi musicali e icone letterarie, in particolare per la classicheggiante “Catino blu”.
Nella seconda parte si sdilinquisce dovizioso in vaudeville più elementari, con un nuovo apice, “2 Cowboy per un parcheggio”. L’ultima parte è quella più psichedelica, ma soprattutto casalinga, con il rarefatto tango-style di “Labbra fredde” sorretto mirabilmente dai comprimari e da sviolinate melanconiche.
Disco di giusto comodo, non è impeccabile nel far corrispondere l’ampio ventaglio di calligrafie ad altrettanti stati d’animo; nella disomogeneità del complessino da camera che lo accompagna ha quasi un disco nel disco: Fiori a piano e violino, “Asso” Stefana a chitarra e basso, Marco Parente alla batteria assieme a Zeno De Rossi, Enrico Gabrielli a fiati e vibrafono, Danilo Gallo al contrabbasso.
Semmai Semiplay, 2011, ribadisce la presenza del complesso sulle scene italiche e contiene ancora "Pterodattili" e almeno il reading-mantra svanito di "Eccetera eccetera", ma è una banalizzazione un po' imbroghesita del loro verbo, che cerca più che altro di venire incontro a un pubblico ormai ampio.
Artinside- Membro classe argento
- Data d'iscrizione : 29.01.09
Numero di messaggi : 3182
Località : Sassari
Occupazione/Hobby : Arte Contemporanea
Impianto :- Spoiler:
- Sorgente: Jvc xv-n680
Pre: Minimalist autocostruito
Amplificatori: Hifimediy Tk2050 alimentata in AC, Smsl sa-s1 Ta2020, Smsl sa-s2 Ta2024, Helder Audio Ta2024 , S I T amp Ta2024, Sure Ta2024, Sure "Octopus" Tpa 3123, Scythe sda1000, Gainclone Lm1875
Diffusori Esb xl5, Alix Project One
Ampli cuffie: Poppulse mini headphone amp
Cuffie: Grado - Alessandro MS1, Koss Portapro, Jvc ha-fxc51, Monoprice 8320, Jvc Ha-fx34, Awei es-q9, Xkdun Ck-700 etc, etc, etc....
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